TITO BALESTRA

Dicono di lui

Luciano Scala – Direttore generale per i Beni Librari e gli Istituti Culturali, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, 2004

 

[…] Nel panorama culturale italiano poche figure come Tito Balestra hanno rappresentato non solo una voce della poesia ma anche la volontà di riunire intorno a sé le migliori energie creative dell’Italia del secondo dopoguerra.

Poeta; amico di pittori, scultori, giornalisti, attori e politici; amante dell’arte, Balestra riuscì, grazie ai suoi interessi ma anche ai suoi rapporti personali, a raccogliere una collezione di opere artistiche in grado di documentare l’intero Novecento italiano.

La collezione Tito Balestra è infatti lo spaccato culturale di una grande stagione romana che copre gli anni 1946-1976 e coniuga arte e letteratura, ma che soprattutto è il frutto di incontri in gallerie e librerie, in ristoranti e luoghi di ritrovo, dove le generazioni uscite dalla guerra misero a fuoco, in una comunione di intenti mai più ritrovata, progetti e risultati artistici.

Era la creatività che, lontana dalle retoriche del passato e all’insegna delle avanguardie, dava il «la» a quanti ancor oggi raccolgono i frutti di quel lavoro appassionato.

Balestra era «un poeta – come testimoniò Alfonso Gatto – che soltanto gli amici sapevano che scrivesse poesie, epigrammi, satire e che ha dato a tutti sicurezza di sé, innanzitutto con il suo comportamento umano, con le sue scelte, col suo buonumore, col suo malumore, col gusto della vita che egli ci ha sempre comunicato».

Una poesia, per usare le parole di Attilio Bertolucci, che «non ha quasi mai spessori di colore, è in bianco e nero, senza sbavature, come Maccari grafico. […] Tito Balestra non è un poeta nuovo, è un poeta diverso che la diversità non cerca, trova in se stesso».

Ma Balestra fu anche un poeta-collezionista, le cui scelte non concedevano il minimo compiacimento alle mode. «Come un prestigiatore faceva di tanto in tanto apparire dalle pieghe dei suoi vestiti una stampa di Goya o di Daumier, o un epigramma», ricorda Guttuso.

A fronte di una figura così rara e vivida, la Fondazione di Longiano a lui dedicata realizza il duplice obiettivo di raccogliere e custodire quell’universo di immagini caro al poeta, ma anche e soprattutto di rendere tale inestimabile patrimonio un bene comune, fruibile dalla collettività.

La Fondazione, oltre a tutelare e a diffondere la conoscenza dell’opera e del prezioso lascito di Balestra, è anche un luogo di attività culturali di grande rilevanza: la sede, nella meravigliosa cornice del castello malatestiano che domina Longiano, sembra così testimoniare la felice riuscita di quel connubio fra pubblico e privato che, in una pluralità di visioni, non può che arricchire e perpetuare un’esperienza culturale così profonda quale fu quella del poeta romagnolo.

Consapevole dell’ importanza della Fondazione e partecipe del suo ruolo propositivo nell’ambito culturale territoriale, la Direzione Generale per i beni librari e gli istituti culturali ha inteso contribuire al sostegno delle sue attività, riconoscendo le risorse necessarie alla realizzazione del catalogo generale del patrimonio artistico della Fondazione, attraverso gli strumenti messi a disposizione dalla legge 513 del 1999.

Siamo consapevoli infatti che la collezione Tito Balestra è una raccolta artistica unica nel suo genere, un insieme di opere e di immagini che documentano, con straordinaria evidenza, il gusto del poeta, il suo originale intuito ma anche lo spaccato della vita artistica di Roma degli ultimi cinquant’anni. […]

 


Ezio Raimondi – Presidente dell’Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, 2004

 

[…] Poeta di spiriti liberi, tra tenerezza e sdegno, mortificazione e ardore, Balestra apparteneva anche alla razza dei veri amatori che, come diceva l’espertissimo Focillon, si portano dentro lo strano demone del disegno e delle stampe e conoscono la dolcezza della solidarietà fra artisti e la cordiale semplicità che emana dalla loro amicizia. Così crescendo di acquisto in acquisto, di dono in dono, di baratto in baratto, la sua raccolta ricompone un quadro dell’arte italiana fra primo e secondo dopoguerra, quale lo viveva dall’interno, nella prospettiva eccentrica ma preziosa della grafica, uno spettatore coinvolto, appassionatamente fedele a una poetica quasi artigianale dell’immagine viva e mordente  […] Ma viene subito da aggiungere che ogni pezzo rimanda a un incontro, è l’effetto di un’avventura e di una scelta, parte di una storia personale in cui il gusto diviene insieme etica, misura di una forma di vita. Non per nulla una collezione può considerarsi anche come una sorta di autobiografia indiretta del collezionista.

 


Giuseppe Appella – Storico dell’Arte, 1982

 

Se metto insieme le cose dette da Tito durante le soste serali all’Arco di via Mario de’ Fiori o in trattoria, se riacquisto il senso del passato ricomponendo i ricordi – lacerti di fantasmi annidati nel fondo del cuore – e i commenti ai fatti del giorno, le piccole astuzie, gli accanimenti, le ingenuità, le schegge lasciate all’improvviso in macchina nei tanti accompagnamenti alla casa di via Stresa, ne vien fuori il ritratto di un uomo poco o punto da letteratura. […]

L’aspetto: calmo e sensibile, da codice ottocentesco, di un’Italia sparita, sobria nell’azione e nel pensiero: testa da antico romano, capelli corti, vestito fantasia da impiegato di banca […] o, d’estate, calzoni corti di tela militare e, sul capo, come segno di trasgressione, un fazzoletto annodato agli spigoli per difendersi dal sole; camicia a quadratini, cravatta di lana a tinta unita, sigaro tra i denti, furbi occhi a spillo di chi esercita una straordinaria rapidità di riflessi, nelle mani una borsa o un giornale maltrattato a riparare un libro come fosse l’impugnatura d’oro di una canna di Malacca. La negazione di ogni eleganza quale segno impercettibile dell’ironia e la realizzazione di un desiderio a lungo accarezzato nella provincia romagnola: essere poeta per sfuggire al destino di farsi suddito del lavoro.

Il suo modo di presentarsi: all’apparenza rustico, privo di concessioni alla forma, limpido nei giudizi, brusco e implacabile nelle liquidazioni, geloso della propria vita privata, avverso al chiasso e alla pubblicità, a tutto ciò che in letteratura rende rispettabili condizionando le capacità di giudizio personale. […]

L’opera d’arte, in Tito, è il sosia che accompagna tutti gli eventi dell’esistenza. Tra un quadro e un’incisione ci sono corridoi di sguardi, contemplazioni, assaporamenti: immagini catalogate in una mente metodica. Ogni opera d’arte collezionata obbedisce a delle regole, segue un sistema, altrimenti viene preparata al baratto. La catalogazione è un’indagine precisa e continua delle leggi che reggono le forme di Maccari e di Mafai, di Morandi e di Rosai, di Bartolini e di De Pisis, leggi quasi simili, le une a confermare le altre, senza ostentazione di talento, come se un quadro scambiasse una visita all’altro quadro, un libro all’altro libro, in una fitta rete di rapporti, di analogie, di conversazioni, di memorie.

Il libro e l’opera d’arte sono la medicina dell’anima, una buca di quiete per ritrovare le radici, l’albero genealogico personale in cui riconoscere preferenze e rifiuti, il reticolo delle aspirazioni, delle soddisfazioni, degli impedimenti che Tito fonde con l’abilità dello stregone.